Insultare il proprio capo o l’azienda su un social network aperto a tutti è più grave, dal punto di vista disciplinare, rispetto a una critica o a un insulto che avviene in una chat chiusa. Sembra una distinzione che si sta facendo largo nella giurisprudenza, sempre più spesso chiamata a valutare la rilevanza disciplinare dell’uso – a volte disinvolto – dei social media e a decidere sulla legittimità di licenziamenti inflitti per messaggi considerati lesivi delle aziende.

La giurisprudenza recente, dunque, sta distinguendo i casi (si veda la sentenza del Tribunale di Firenze del 16 ottobre 2019) in base alla platea che riceve eventuali messaggi offensivi: la rilevanza disciplinare dei messaggi cambia quando sono pubblicati su profili social aperti a tutti, o su account o all’interno di chat telefoniche il cui accesso è filtrato e riservato.

Nel primo caso, l’eventuale contenuto offensivo del messaggio rileva sul piano disciplinare e, quindi, può essere contestato al lavoratore e usato come motivo di licenziamento (se ci sono gli elementi di gravità richiesti dalla legge).

Nel secondo caso, la giurisprudenza equipara i messaggi inviati alla chat chiusa o pubblicati sul profilo ad accesso limitato alle forme di corrispondenza privata che, come tali, sono oggetto di tutela costituzionale e non possono essere usate per licenziare o sanzionare un dipendente.

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